IL MOBBING

“Ti faccio causa per mobbing!!!”

Negli ultimi anni questa, sempre più spesso, è la “minaccia” posta in essere da numerosi dipendenti nei confronti del proprio datore di lavoro che tra sé e sé pensa “E adesso che diavolo è il mobbing?”. Con questo articolo proviamo a capirci di più su questo fenomeno non ancora regolato dall’ordinamento italiano, analizzando alcune recenti sentenze della Corte di Cassazione.

Il mobbing, che in inglese significa “accerchiare, attaccare”, rappresenta una situazione lavorativa di conflittualità sistematica-persistente, in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più “aggressori” in posizione di superiorità, inferiorità o di parità rispetto al bersaglio delle condotte, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo.

Solitamente la dottrina distingue tra due tipologie di situazioni rispettivamente indicate come mobbing verticale, che è operato dal datore di lavoro (evento definito anche bossing) o dal superiore nei confronti dei sottoposti gerarchici, e mobbing orizzontale che è rappresentato da comportamenti vessatori posti in essere dai colleghi di lavoro. Tale distinzione però nella pratica ha poca importanza in quanto anche nel caso di comportamenti vessatori attuati esclusivamente da dipendenti nei confronti di un proprio collega il datore di lavoro sarà sempre responsabile in quanto incombe su di esso l'obbligo di vigilare sul comportamento tenuto dai propri dipendenti.

Nella maggiore parte dei casi il principale obiettivo dei soggetti che pongono in essere tali comportamenti è quello di far allontanare spontaneamente il dipendente indesiderato dal proprio posto di lavoro tramite le dimissioni dello stesso.

La giurisprudenza in questi anni ha individuato una serie di elementi costitutivi del mobbing che sono riassunti nella recente sentenza della Corte di Cassazione n° 2142 /2017 la quale individua come fondamentali per la realizzazione del fenomeno mobbing la necessaria co-presenza di tali elementi:

  • Comportamenti ostili in serie: si è ritenuto che le forme che il mobbing può assumere sul posto di lavoro vanno dall’emarginazione, alla diffusione di maldicenze alle continue critiche alla persecuzione sistematica, dalla dequalificazione professionale alle ritorsioni sulle possibilità di carriera;
  • La ripetitività delle vessazioni per un congruo periodo di tempo (minimo 6 mesi)
  • L’evento lesivo della salute e della dignità del dipendente;
  • Il nesso causale tra le condotte e il pregiudizio subito dalla vittima (se tale nesso non viene dimostrato non si ha mobbing come sentenziato dalla Cassazione con la pronuncia n°24029/2016)
  • L’intento persecutorio di tutti i comportamenti lesivi: il mobbing esiste in tutti quei casi in cui le condotte siano poste in essere con dolo specifico cioè “con volontà di nuocere, infastidire o svilire un compagno di lavoro ai fini del suo allontanamento dall’azienda” .

Sempre tramite l’analisi dei tantissimi casi capitati nell’ultimo periodo la giurisprudenza della Suprema Corte ha individuato anche una serie di comportamenti tipici che contraddistinguono il mobbing quali:

  • trasferimenti ingiustificati del dipendente;
  • l’emarginazione o l’isolamento del lavoratore;
  • la dequalificazione, come stabilito anche dalla già menzionata sentenza n° 2142/2017, con cui è stata data ragione a un vigile urbano che era stato trasferito all’ufficio pratiche cimiteriali;
  • il demansionamento del lavoratore, come statuito dalla sentenza del Tribunale di Torino il 23 gennaio 2017, con cui è stata risarcita una dipendente pubblica la quale, nel 2001 dopo aver sanzionato il proprio ente per la mancanza di segnaletica obbligatoria in ambito di cantieristica, ha avuto un netto calo delle proprie competenze /dei propri compiti e costretta a lavorare in un ufficio di 8 mq senza finestre per tredici anni;
  • sottrazione di compiti e responsabilità con assegnazione di esse ad altri dipendenti
  • molestie sessuali ;
  • sovraccarico di lavoro e
  • richiami continui e ingiustificati.

A fare da contraltare a queste statuizioni a “a favore” dei datori di lavoro troviamo tra le altre la sentenza n° 7118/2017 la quale esclude “il reato di ingiurie per il lavoratore che soffre disagi a causa di mobbing”. Attenzione anche al cd mobbing familiare, che si ha nel caso di attività lavorativa prestata con familiari il quale può addirittura portare ad essere accusati e processati per il reato di maltrattamenti in famiglia come è dimostrato dalla sentenza n° 44589/2015 che ha confermato il reato di maltrattamenti per il cognato e la suocera del povero lavoratore, il quale dopo essere diventato “affine” dei due datori di lavoro veniva discriminato rispetto ai colleghi, subendo continui ed esagerati rimproveri, pubbliche denigrazioni ed aggravamenti dell’orario di lavoro. Altra sentenza che ha avuto grande risalto negli scorsi anni è la n°40320/2015 la quale ha dichiarato presente il mobbing nel caso in cui una azienda esonerava dalle proprie funzioni il lavoratore più anziano ed esperto per preferirgli colleghi più giovani e meno preparati nonché la n° 23837/2015 la quale ha punito per mobbing una ditta che ha escluso un dipendente da qualsiasi accesso a corsi i di qualificazione emarginandola dal progetto di riqualificazione e ristrutturazione aziendale.

 

Il danno risarcibile
Innanzitutto il lavoratore può ottenere il ristoro dei danni patrimoniali subiti rappresentati dalla capacità di guadagno e di lavoro del soggetto.
Oltre ai danni di natura patrimoniale il lavoratore che sia vittima di comportamenti persecutori da parte del datore di lavoro può richiedere il danno biologico quando manifesti, ad esempio, disturbi al sistema nervoso con somatizzazioni (nausea, vomito, dolori epigastrici) o comunque sintomi psicofisici in reazione a detti comportamenti persecutori.
Il dipendente inoltre può anche richiedere anche il danno morale, tutte le volte che siano derivate al dipendente lesioni personali o uno stato di malattia, acquisendo in tal caso la condotta del datore anche un rilievo penale che giustifica l’attribuzione del risarcimento ex art. 2059 c.c. .

 

Insomma, attenzione ai comportamenti tenuti... C’è rischio di incorrere in effetti indesiderati!

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